di Luca “La Sfinge” Papale

Siren: Blood Curse è il terzo episodio della serie di Siren (conosciuta come Forbidden Siren in Europa), ed è survival horror in terza persona caratterizzato dalla funzione del sight-jacking, ossia la facoltà di vedere attraverso gli occhi dei nemici.

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Nello sbarcare su Playstation 3, Siren si è rinnovato proponendo un’estetica da serial televisivo americano, con un cast prevalentemente occidentale (a differenza dei due predecessori) e una struttura episodica con tanto di “nella prossima puntata” alla fine di ogni sezione e un riassunto delle “puntate” precedenti all’inizio di una nuova. La trama, invece, mescola elementi tipici della narrazione occidentale con una certa “aura giapponese”. La premessa è questa: una troupe televisiva (composta da sole tre persone, poco credibile come cosa…) si reca ad Hanuda, un villaggio fantasma del Giappone rurale, per girare un documentario sul paranormale, e si ritrova testimone di un sacrificio rituale; sacrificio che viene bruscamente interrotto dall’intervento di Howard Wright, studente americano in viaggio di studi, che, come si scoprirà, è stato attirato sul posto da un misterioso messaggio apparso sul suo blog (il suo blog esiste davvero in rete, e seppur poco curato contribuisce a creare attorno al gioco un contesto “realistico” che favorisce il coinvolgimento nella narrazione). Oltre alla troupe e a Howard ci saranno anche altri personaggi, il cui ruolo resterà un mistero per buona parte della storia. Sono anche e soprattutto loro a conferire al gioco “l’aura giapponese” di cui parlavo in precedenza: l’ambiguità delle loro personalità, l’inspiegabilità di certe situazioni e un certo tipo di narrazione allusiva più che esplicativa, vagheggiante piuttosto che descrittiva, forniscono al gioco un alone di mistero, al punto che un giocatore disattento si potrebbe ritrovare a non riuscire a seguire affatto la trama – che nel finale verrà solo parzialmente spiegata, e che al contempo si complicherà ulteriormente. Nel corso del gioco sarà possibile reperire alcuni oggetti che sveleranno dei retroscena e dei dettagli sulla storia, alcuni molto rilevanti, altri davvero di contorno: una ricerca attenta di questi oggetti potrebbe essere una discriminante fondamentale per visualizzare sin dalla prima partita il quadro generale della trama del gioco. Al di là di questa “indeterminatezza” di alcuni aspetti della narrazione in Blood Curse, comunque, l’impressione è che in più di un’occasione ci troviamo di fronte a dei buchi narrativi – ad esempio, non viene mai spiegato perché i protagonisti hanno l’abilità del sight-jacking.

Ogni personaggio giocabile di Siren: Blood Curse dispone di proprie caratteristiche. Questo contribuisce a rendere vario il gameplay adottando diversi approcci (dal più action al più stealth)

Passiamo al gameplay: il gioco offre diversi personaggi giocabili, ognuno con delle caratteristiche peculiari. Il controllo di detti personaggi non sarà a discrezione del giocatore, bensì rispetterà precise esigenze narrative: a seconda del contesto potremmo ritrovarci a gestire simulacri digitali maggiormente rivolti all’azione, mentre con altri sarà auspicabile (se non obbligatorio) un approccio stealth. Questa alternanza tra personaggi (e quindi tra stili di gioco) aiuta a fornire una buona varietà di gameplay e a spingere il giocatore ad adottare approcci sempre diversi.

Il sistema di combattimento non è il massimo: manca una funzione di lock-on sui nemici, e negli spazi stretti sarà molto difficile far fuori i nemici (anche muoversi, se è per questo: la telecamera fissa alle spalle non aiuta). Tuttavia è almeno presente una grande varietà di armi (50 in tutto) che vanno dai classici tubi di ferro e fucili a vasi da notte, mestoli, padelle e attrezzi agricoli. Ogni arma ha una sua potenza e maneggevolezza, e per alcune ci sono delle scenografiche “finishing moves” che vale la pena vedere. Combattere comunque, come ho già detto, non basterà sempre, anche perché i nemici respawnano in fretta, o meglio si rialzano – sono non morti, dopotutto. Senza contare che Blood Curse è molto realistico per quanto riguarda la dose di ferite che un normale essere umano può sopportare: uno shibito potrà ucciderci anche con un paio di colpi, se armato di piccone, falce o altre armi di questo tipo. Questo eccesso di realismo, comunque, tende ad essere frustrante: capiterà spesso, nel corso del gioco, di morire e dover ritentare ogni volta.

A compensare la tendenza dei nostri personaggi a tirare le cuoia ci sarà comunque una pessima IA degli shibito, i quali si accorgeranno della nostra presenza solo se urleremo a squarciagola vestiti con tute fosforescenti. Sarà dunque necessario, come ho già detto, ricorrere ad approcci più orientati allo stealth, ed è qui che il sight-jacking dovrebbe venire in aiuto. Dico dovrebbe perché lo split screen col quale simultaneamente possiamo visualizzare il nostro avatar e la visuale in soggettiva degli shibito riesce facilmente a confondere le idee, soprattutto nelle prime fasi del gioco – con la pratica si scopre poi essere uno strumento utile, ma diciamo che non è esattamente la concretizzazione del concetto di praticità. A volte risulta molto più comodo guardarsi semplicemente intorno, camminare carponi e spegnere la torcia – ma il buio in Blood Curse è davvero buio, e senza una fonte di luce sarà davvero un’impresa orientarsi.

Lo stealth, tuttavia, non sarà sempre possibile, e capiterà non di rado di ritrovarci a combattere in netta inferiorità numerica. Soprattutto nell’ultimo episodio la difficoltà del gioco salirà in maniera esponenziale, a livelli davvero frustranti, e il ragequit sarà sempre dietro l’angolo. La tensione orrorifica sarà sostituita dalla tensione nervosa di dover riprovare lo stesso quadro venti volte di fila; questo tenderà a rovinare quello che dovrebbe essere il climax finale, che invece di accelerare in intensità e suspance ci terrà impantanati ad un passo dalla fine.


Siren: Blood Curse presenta (pochi) ambienti di gioco molto dettagliati e ricchi di quella suggestione tipicamente giapponese.

Passando al comparto tecnico, si segnala una resa grafica davvero niente male per un gioco del 2008, con ambientazioni curatissime nei minimi dettagli – lo scenario del boss finale, poi, è semplicemente fantastico! Ambientazioni che però sono davvero poco varie: nel gioco incontreremo si e no cinque location, che rivisiteremo più volte – un riciclaggio bello e buono, sebbene motivato da spunti narrativi. Il gioco di luci e ombre è molto ben curato, sebbene, come ho già detto, le sezioni al buio siano eccessivamente scure. Un altro aspetto grafico sicuramente degno di nota è l’effetto grana o “rumore”, aggiunto per dare al gioco “l’aspetto di un vecchio film horror in VHS”, come viene descritto nel making of: un’intento alquanto contraddittorio, in quanto il gioco già imita i linguaggi dei serial contemporanei. Il risultato è un pastiche estetico. Questo stratagemma, inoltre, sa terribilmente di vecchio, in quanto la serie di Silent Hill ha già provveduto in tempi ormai remoti ad implementare questo filtro ottico: sebbene sia comunque d’effetto, è ormai anacronistico fornire ad un gioco l’aspetto di un film in videocassetta, nell’era dei Blu Ray e dell’alta definizione. Il filtro grana poteva servire agli sviluppatori della prima metà degli anni 2000 a nascondere i difetti grafici, a “sfocare” l’immagine per mascherarne le sbavature, ma oggigiorno si rivela essere un trucchetto fine a se stesso. Non è un caso che le versioni rimasterizzate di Silent Hill 2 e Silent Hill 3 (di prossima uscita nella Collection HD) siano state private di questo effetto grafico, che di fatto avrebbe danneggiato la risoluzione delle immagini. Gli sviluppatori di survival horror prendano nota: il giochetto dell’immagine granulosa è vecchio e non sorprende più. Andate oltre. Buono il comparto audio, bel doppiaggio in lingua inglese (con inserti in giapponese), assente quello italiano. Musiche quasi sempre all’altezza della situazione, ma la cantilena che si sente ad ogni game over (e la sentiremo spesso) è davvero fastidiosa.

Ma la cosa più importante, ossia il fattore horror? Beh, quello non manca di certo. Gli shibito fanno paura, con la loro pelle bianco latte, le orbite oculari vuote e le guance rigate di lacrime di sangue. Il loro mokap è stato curato da una compagnia di danza (come si evince dal making of presente nella versione europea del gioco), con ballerini capaci di eseguire movimenti davvero innaturali ed inquietanti, quando applicati ai corpi di questi zombie made in Japan. Al di là di questo, non mancheranno balzi dalla sedia quando verremo scoperti e saremo costretti alla fuga; balzi seguiti da attimi di tensione assoluta perché, come ho già detto, la telecamera resterà fissa alle spalle e non ci sarà modo di voltarci indietro per controllare se effettivamente i mostri sono ancora alle nostre calcagna. Presenti infine attimi di puro terrore: in qualche occasione la semplice paura verrà sostituita da un’angoscia più profonda disturbante, ma il primo sentimento tenderà a prevalere.

Commenti finali
In definitiva, Siren: Blood Curse è un buon gioco, soprattutto se si considera la scarsità di offerte di qualità relativamente al panorama del survival horror di questa gen. Non è esente da difetti, ma si lascia giocare e riesce a fare quello che ogni gioco di questo tipo, in definitiva, dovrebbe mirare a fare: spaventa il giocatore. Se siete disposti a sorvolare su alcune sbavature nella trama e non siete spaventati da una difficoltà un po’ alta (ma si può sempre giocare a Facile!), Blood Curse saprà soddisfare la vostra voglia di survival horror.

+ Una trama ricca di spunti narrativi interessanti…
+ Gameplay abbastanza vario…
+ Buon comparto tecnico, con ambientazioni ricche di dettagli…
+ Piacevole il modo in cui imita le estetiche del serial televisivo americano
+ Fa paura!

– … ma poco facile da comprendere/seguire
– … ma inficiato da un sight-jacking poco intuitivo e un sistema di combattimento non eccelso
– … ma che alla fine si riducono a poche location
– La telecamera di gioco non gestibile, pur aumentando il senso di paura, rende macchinosi i movimenti
– Curva della difficoltà mal calibrata, che costringe ad estenuanti sessioni di trial and error